Il buio nero del Congo

 

Ore 09.21 del 04.08.2014

 

Ieri sera siamo finalmente atterrati nella Repubblica Democratica del Congo e, appena abbiamo messo i piedi a terra, noi donne ci siamo abbracciate: è stato un momento davvero emozionante.

Poco prima, in aereo, avevamo temuto il peggio perché sotto di noi vedevamo solo una distesa immensa di buio, un buio pesto e impenetrabile. Solo poco prima di atterrare, quando l’aereo stava scendendo già da un pezzo, ci sono apparse le luci della pista di atterraggio. 

In realtà, rispetto ad Istanbul, non erano luci, ma flebili cerini e nessuno avrebbe mai pensato di trovarsi vicino alla capitale della Repubblica Democratica del Congo, Kinshasa.

In aeroporto c’erano molti comboniani in uniforme militare che ci guardavano con aria severa e poco amichevole: hanno effettuato diversi controlli prima di farci uscire e ci hanno proibito categoricamente di fotografare le loro bandiere o qualsiasi altra cosa. 

Dopo interminabili attese, all’uscita abbiamo trovato ad accoglierci due volti sorridenti, quello di Padre Pier e quello di Padre Lazare, che si sono subito presentati stringendoci la mano con un elegante “enchantè”. 

Eravamo circondati da jeep stipate di gente, urla e sguardi sospettosi. Qualcuno si è avvicinato nel buio per chiederci dei soldi e Padre Marano, senza indugiare oltre, ci ha fatti salire velocemente sul retro di una jeep, seduti uno di fronte all’altro.

La strada era sterrata e sobbalzavamo ad ogni buca; il buio era sempre più scuro e ai lati della carreggiata apparivano e scomparivano banchetti con gli oggetti più svariati, case in lamiere di zinco appoggiate tra loro, gruppi di donne e uomini radunati al lume di una candela.

Tra di noi è calato un silenzio irreale, di fronte a questa realtà così assurdamente diversa dalla nostra.

La strada si è fatta sempre più bucherelleggiante fino a quando non siamo arrivati a Bibwa, il piccolo villaggio in cui avremmo alloggiato. Ci hanno fatti scendere e sedere sotto un grande portico per aspettare Mariano e gli altri padri, che si erano occupati delle valigie in aeroporto.

Attorno a noi il buio era totale: non ho mai visto nella mia vita un nero così nero. Qualche pipistrello volava tra gli alberi, ma nessun ragno, grazie al cielo. 

All’arrivo di Mariano ci hanno portati dentro un edificio in mattoni per cenare tutti insieme e siamo subito rimasti sorpresi da questa calorosa accoglienza. Avevano apparecchiato una lunga tavola con pietanze diverse: strani affettati, riso, pollo, fagioli, verdure e, per mia grande gioia, patate dolci.

La stanchezza iniziava a farsi sentire, ma l’emozione di essere lì, nel centro dell’Africa, a cenare con la gente del posto, era molto più forte.

Più tardi ci hanno portati ai nostri dormitori: uno in comune per gli uomini e uno per noi donne. 

Appena entrate ci siamo trovate di fronte a tre letti a castello in legno e uno singolo in ferro battuto, sparsi per la stanza. Io sono finita in quest’ultimo, anche se non sembrava molto comodo, ma per me era perfetto perché dormire con qualcosa (o qualcuno) sopra la testa mi inquieta. Lo so, non è normale.

Abbiamo avvicinato tutti i letti per sentirci più unite. La stanza è immensa: ci sono anche degli armadi, ma abbiamo preferito lasciare tutto in valigia per evitare incontri indesiderati con gli insetti del posto.

Siamo consapevoli di essere fortunate a trovarci in una struttura di mattoni ma, se eravamo pronte a vivere nell’essenzialità, di certo non eravamo preparate ai bagni dentro il nostro dormitorio. Poi si sa, per una donna il bagno e la pulizia ricoprono una certa importanza. 

Due turche mezze intasate, quattro docce con strani insetti alle pareti e una botte in cui sputare allegramente insieme per risciacquarci con l’acqua delle nostre bottigliette dopo esserci lavate i denti (l’acqua dei rubinetti non è potabile).

Eravamo tutte abbastanza in crisi quando, all’improvviso, si sono spente le luci e siamo rimaste senza elettricità. La dose giornaliera era terminata. Non ci sembrava vero.

Lentamente, in modo del tutto impacciato e non senza imprecazioni di varia natura, abbiamo cercato al buio le torce in valigia e le abbiamo accese, ma i nostri occhi non erano ancora abituati a quella notte così nera. Impareranno, ci siamo dette.

Chiudiamo gli occhi tra rumori di pipistrelli e animali sconosciuti: è la prima notte nel cuore dell’Africa.

 

L’essenzialità convive con la dignità

 

Ore 22.18 del 04.08.2014

 

Sto scrivendo alla luce della mia torcia: ancora non mi sono abituata all’idea di vivere così. Anche stasera l’elettricità ci ha salutate molto presto e abbiamo fatto la prima doccia a lume di candela, ma non è stato così romantico come può sembrare.

Il getto d’acqua si faceva pregare per scendere e i miei occhi erano fissi sul buco per terra, con il terrore che, nel buio, potesse sgattaiolare fuori un qualche insetto dalle proporzioni enormi. Nel frattempo però ridevamo e cantavamo: che esperienza incredibile!

Per ora il desiderio di metterci alla prova, che ci ha portati tutti fin qui, prevale sull’ansia. Per quanto mi riguarda sto già superando alcuni miei piccoli limiti: mio padre diceva che sarei corsa a casa dopo il primo giorno, quindi questo mi pare già un buon risultato…

La nostra giornata è iniziata con molte raccomandazioni: continuare a prendere con costanza le nostre pillole di Doxi per la profilassi antimalarica, lavarci spesso le mani e avere sempre un’amuchina con noi. 

Oggi siamo rimasti in comunità e mi ha colpita particolarmente la curiosità dei bambini che ci seguivano da lontano, ma allo stesso tempo avevano timore di avvicinarsi troppo a noi, come se fossimo stati alieni di mondi paralleli.

Al contrario le donne del posto si sono presentate come nostre “mama”, mamme che si sarebbero dedicate a cucinare per noi durante tutto il nostro periodo di permanenza. Avevano addirittura il caffè, o comunque qualcosa che ci andava vicino…

Durante la giornata abbiamo visitato l’ospedale del posto e incontrato alcune giovani donne, che cullavano i loro bambini di pochi giorni. Non erano infastidite dalla nostra visita, anzi, si sono dimostrate molto gentili con noi. 

Nei loro occhi ho visto una forza e una dignità esemplari: quando mi osservavano faticavo a mantenere il mio sguardo fisso nel loro. 

Sentivo di provare un grande rispetto per queste donne africane dai lunghi vestiti, che hanno dovuto presto imparare ad accettare questa vita per come viene e a trarne il meglio che hanno potuto.

Spesso, come occidentali, ci sentiamo più evoluti e crediamo di avere tutto da insegnare alle culture africane ma, forse, se entrassimo con umiltà nella loro vita, ritroveremmo quei valori umani che sono antichi, certo, ma più preziosi dell’oro.

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